Mi Porta, la bellezza… senza girare la chiave nella serratura

Talvolta, la bellezza irrompe davanti ai nostri occhi senza dover girare una chiave nella serratura per conoscerla. Non occorre bussare, abbattere muri, scavalcare , intima l’artista, che, come un usciere silenzioso, tenendoci sulla soglia, ci insegna l’esitazione. Lo sguardo veloce del fotografo, anticipa ogni colpo d’occhio, e, avvezzo a soffermarsi su tutto quel che vede non vuole superare quel che è già l’opera d’arte. Una porta tarlata o tinta di ruggine che non nega il passaggio, ma persuade a indugiare.

Avventurandosi per le strade di Grottaglie, Roberto Sibilano si imbatte in porte funestate dal tempo, maestro autografo dal tocco ultimo e costante di quella materia in lotta con la progettualità dell’uomo. Usci corrosi, graffiati e scorticati appaiono piccoli angoli di pace nonostante l’usura.

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E intitola così il fotografo, “PACE”, quella soglia di un bianco candidamente sporco, ben bilanciata tra le forme squadrate che la sezionano e la bicromia blu – rossiccia che brilla sullo sfondo lattescente. Probabilmente, una delle porte più consunte del ciclo, che però nasconde la sua precarietà in una freschezza perpetua e luminosa.

Il ruolo della porta, come parte che sta per il tutto è rappresentazione dell’entità dell’edificio, in questo caso domestico, legato ad un contesto ancestrale. L’artista compendia imposte battenti dalla conformazione vetusta, spesso senza la reale esistenza di maniglie o serrature odierne, dissimili dalle costruzioni blindate e tecnologiche dell’epoca moderna.

La porta automatica, ad esempio, cancella l’essenza simbolica della porta stessa, poiché viene meno l’interrogativo di attraversarla o di non aprirla affatto. Già Robert Musil nelle sue pagine inedite Porte e Portoni aveva rimpianto gli antichi portali, così come le porticine che esprimevano l’estrazione sociale di ogni cittadino, attento alla manutenzione della propria soglia per ribadire il ruolo da padrone. “Le porte appartengono al passato” affermava l’autore che con ironica malinconia scriveva “Eppure questo battente ha già perduto quasi tutto il suo significato. Fino alla metà del secolo scorso, ci si poteva ancora star dietro a origliare, e quali segreti si apprendevano talvolta!”.

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Le porte di Grottaglie rilevano dunque il legame con la tradizione, che ridimensiona la visione della soglia come passaggio verso il nuovo e verso il futuro. L’usura rappresenta al contrario un tempio immortale della saggezza, forse alle volte inascoltato come quelle porte che rischiano di non destare l’immediato interesse. I ruoli si invertono e ciò che c’è fuori la porta diventa rappresentazione del caos, una realtà che è diventata più ignota del buio oltre la porta, dove invece, le mura rassicuranti circoscrivono nell’allegoria del passato uno stato di sicurezza.

L’artista si aggrappa perciò alle certezze dei valori eterni e puri trascorsi, che appaiono più stabili di qualsiasi porta rigidamente programmata su canoni di funzionalità ed estetica, o semplicemente di ciò che è noto e palpabile al di qua dell’ingresso. La decadenza delle porte è contemporaneamente minaccia della scomparsa e fascinazione, entrambi fattori che ne implicano la difesa.

In “ANCORA” l’artista scova una porta di legno non dipinto, quasi incastrata nella muratura grattata e incisa senza clemenza dalle stagioni. L’accesso è però interdetto dall’aggiunta di barre di legno disposte orizzontalmente che, in tale prospettiva fotografica, lasciano spazio all’immaginazione di un’impalcatura. Pur priva di colorazione, la superficie appare variegata, come un cratere in cui è la luce a riscaldarne ogni aspetto.

La cesura accresce la preziosità di un tesoro nascosto, di un mondo abbandonato e sommerso, e ne sancisce il senso di separazione tra il peso del passato che perdura e lo sguardo transitorio del presente, di uno spettatore di passaggio, intento ad allacciare una comunicazione. Il tentativo di accesso all’ignoto perciò, riconducibile alla scoperta, alla conquista di crescita, diventa nel caso di un effettivo passaggio, un ingresso fruttuoso nel ripostiglio del passato, bagaglio ideale della maturità.

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E se lo scarto è estremo tra la freddezza delle nostre porte moderne e la maestosità dei portali romanici, gotici, rinascimentali, in cui la decorazione e la simbologia proliferano intrecciandosi, l’effetto policromo, talora scultoreo, delle porte grottagliesi non passa inosservato. Come in seguito ad un automatismo di Ernst, anche qui agisce la casualità, motrice di composizioni contingenti che si frammentano ora nei ferrosi e ossidati gialli e rossi, ora nel grattage ligneo che frantuma la vernice bianca, scoprendo le linee nervose di una superficie non più levigata.

Roberto Sibilano rintraccia quel che appare il gesto convulso di un action painting naturale e nei tre scorci proposti nel muro dettagliato di “BRIVIDO” scandaglia le falde di un legno umido, che ha assunto nel tempo tonalità calde e ricercate.

A movimentare i battenti di altre porte sono ancora i rimaneggiamenti effettuati nel tempo, anch’essi deteriorati e mescolatisi in una sedimentazione storica e astratta. L’intonaco ripassato, le modifiche ai pannelli di legno, l’asportazione di schegge contribuiscono a omogeneizzare la cornice con il vissuto inscritto. Partecipano alla narrazione scritte vandaliche inscindibili dall’esperienza di ogni singola porta, segnata da pennarelli più o meno gentili come quelli che segnano “DENTRO”.

In questa porta si impastano molteplici effetti degli agenti esterni: dalle scritte agli schizzi di pittura in basso, dai fori e tagli sul modellato del pannello alle incrostazioni. Ogni impronta prende parte al processo di addizione e sottrazione di elementi che ricreano una corteccia stratificata.

Sibilano cattura talvolta l’intera imposta battente nella sua interezza, non trascurando l’esplorazione del particolare per ottenere una resa minuziosa della materialità scomposta, viva e mai violenta dei suoi soggetti. Il trasporto del fotografo verso l’aspetto della sostanza tangibile accomuna le sue sperimentazioni con l’informale Alberto Burri, i suoi catrami e le muffe. Le macrofotografie di Sibilano rivelano una consistenza così percepibile da innescare un’empatia con lo spettatore, il quale può così rivivere il momento della contemplazione precedentemente saggiato dall’artista.

La qualità porosa della carta enfatizza la corposità delle porte pesanti, quasi incombenti, in cui ritroviamo l’attenzione per l’uso dei materiali non ai fini cromatici, analogamente ai logori sacchi di iuta burriani. La crepatura naturale di una porta bianca, inerente al ciclo “BRIVIDO” raggiunge naturalmente il medesimo effetto “craquelé” dei “cretti” di Burri, ottenuti artificialmente e tesi a riprodurre un terreno arido causato dalla siccità. Ancora ritroviamo il conflitto tra vitalità e distruzione che l’artista sfida, imitando o intrappolando la sua azione. Il legno verniciato di bianco, appena coperto da un tegumento sottile, appare quasi un continuum con il muro.

Sibilano, al contempo, asseconda il linguaggio di Burri, per cui l’arte interviene sempre in una fase successiva; entrambi infatti prediligono materiali già utilizzati e consumati, prima di generare l’opera d’arte.

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L’interesse per ciò che è deteriorato, devitalizzato, relitto, ricorre anche nella forma mentis di alcuni scrittori del Novecento, che vivono un dopoguerra lacerato da morte e distruzione, anche morale. Basti pensare ai versi di T.S. Eliot, allusivi al rapporto dicotomico fertilità/aridità e a quelli di Eugenio Montale che aderisce ad una vera e propria poetica degli oggetti. Lo stato d’animo che entrambi esprimono è metafora del rifiuto di una società occidentale sterile, nonché della condizione esistenziale infelice del poeta, il quale agogna una fonte di salvezza. Nel pensiero montaliano tale rimedio consiste nella ricerca di barlumi, suoni e oggetti quotidiani altresì reietti, che aprano un varco, uno spiraglio oltre cui si possa esprimere la pienezza del vivere. L’emblema eterno del varco è riconducibile all’immagine della porta, spartiacque che decreta il passaggio in una dimensione ignota, intrigante, intesa talvolta come via d’uscita.

La fuga concretizzerebbe allora, la scelta iniziale che ha visto lo spettatore incerto sostare davanti ad un uscio e, i pertugi, le imposte semiaperte, le finestre catturate dall’obiettivo di Sibilano stimolano questa voglia di dialogo con ciò che è sconosciuto, aumentando la curiosità di colui che bussa. Una barra di legno serra la porta gialla dalle campiture bianche ad impedire l’accesso, frattanto che un pannello mancante funge provocatoriamente da grande spioncino, richiamando l’attenzione quanto il desiderio di elusione.

Le recinzioni esortano alla profanazione dell’edificio e motivano il desiderio di fuga insito nell’uomo, alla continua ricerca di ciò che non è accessibile alla vista. Persuasi dalla convinzione di ricercare sempre le verità oltre gli argini perdiamo frequentemente ciò che si rivela sotto il nostro sguardo distratto e non comprendiamo il significato che l’ostacolo stesso ha in sé; eccessiva impulsività ed estrema titubanza conducono spesso alle decisioni sbagliate.

Tuttavia, la condotta dell’artista sembra giungere ad un equilibrio: egli decide di non entrare, né di andar via. Non sceglie, o meglio, propende per una comprensione della sua scelta, attraverso la contemplazione. La porta diventa perciò il luogo ideale dell’attesa, in cui il fotografo aspetta, alla stregua di Montale, un indizio, un’illuminazione, in prospettiva di qualcosa che accada e guidi la sua direzione.

Ciononostante, egli è consapevole dell’azione inarrestabile del tempo, di cui i battenti si fanno testimoni e, in difesa di bellezza e verità, sfida scadenze e decadenze con l’arma della fotografia, l’arte che meglio può fermare la rapidità di un “batter d’occhio”.

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